Legal design 1: parliamo chiaro

Magistrati e avvocati: parliamo chiaro?

All’inizio del XX secolo, Franz Kafka scrisse un racconto intitolatoDavanti alla Legge”. In questo racconto, un contadino vuole entrare nella Legge, ma non ci riesce, perché al portone c’è un guardiano che non lo lascia entrare. Questo racconto fornisce un’ottima rappresentazione di una situazione che si verifica comunemente: i cittadini, che cercano di accedere al sistema giudiziario, sono ostacolati da diversi ostacoli che non permettono loro di entrare. Una di queste barriere che bloccano l’accesso alla legge è senza dubbio il linguaggio complesso e “tecnico” in cui la legge e i testi giuridici diritto scritti.

Nel mondo giuridico c’è la falsa convinzione che più complesso è il linguaggio, migliore è l’argomentazione. Gli avvocati utilizzano un gergo molto tecnico (e a volte poco comprensibile) perché ritengono che sia un buon modo per convincere gli altri, (e forse anche se stessi), di essere padroni della materia e molto competenti. In questo modo siamo stati formati come avvocati (nei libri universitari i brocardi latini sono molto frequenti, perché il nostro diritto derivano dal diritto romano) e quindi siamo abituati a pensare che un buon avvocato è qualcuno che parla e scrive usando quel linguaggio e questo “suona” bene anche a chi ascolta.

De facto, extra legem, stricto sensu e lato sensu, ne bis in idem, sono alcuni dei termini in cui ci si imbatte spesso quando si parla con un avvocato, quando si affronta un procedimento legale o quando semplicemente si vuole accedere al sistema giudiziario. Quando la lettura della sentenza è terminata (e lo vediamo anche nei film), capita che l’imputato guardi l’avvocato confuso e chieda: “Abbiamo vinto?” È la sua vita che è in gioco, eppure si rende conto di come cambierà dalle facce di festa o di tristezza dell’altra parte e non da ciò che è stato detto in udienza o scritto nella sentenza, perché non lo capisce.

Il diritto è uno strumento creato da e per le persone, ma è stato e continua ad essere costruito sulla base di tradizioni e consuetudini che si stratificano nel tempo, rendendo il linguaggio (dell’avvocato e delle norme) sempre più tecnico. Ciò ha un impatto sociale forte e spesse negativo. E’ ironico pensare che il linguaggio giuridico appartenga solo agli avvocati, ma non al resto della società, considerando che il diritto fa parte della vita quotidiana di tutti. Sandra Fisher-Martins è un’attivista che studia un campo della comunicazione chiamato “plain language” e afferma che oggi esiste un “apartheid informativo”, che si verifica quando una parte della popolazione non comprende le informazioni di cui ha bisogno per svolgere la propria vita quotidiana.

Avvocati, dobbiamo migliorare il modo in cui comunichiamo la legge e sviluppare un linguaggio più chiaro, in modo che i nostri utenti possano comprenderla. Dobbiamo costruire ponti di comprensione tra noi che facciamo parte del sistema giudiziario e i cittadini, per evitare i fossati di incomprensione che allontanano le persone dall’apparato giudiziario. Pensiamo che ci sia un solo modo di dire o di fare le cose, ed è per questo che costruire questi ponti comporta un grande sforzo, perché anche se può sembrare illogico, parlare chiaro è molto difficile. Il diritto è pieno di brocardi, tecnicismi e linguaggio tecnico; ma dobbiamo trovare il modo di comunicare nel modo più appropriato per il nostro “pubblico”, che è fatto prima di tutto dagli utenti (i cittadini, i clienti) e poi dai colleghi e dai magistrati.

A differenza della storia di Kafka in cui il contadino muore davanti ai portoni della Legge, in attesa di trovare una via d’accesso, noi avvocati abbiamo il potere di cambiare questa condizione trovando il modo di facilitare la comunicazione e la comprensione del linguaggio giuridico.

È necessario cambiare approccio e innovare il “linguaggio giuridico”, per consentire a chiunque lo desideri di entrare nella legge.

Laura Heshius