Quello che apparentemente potrebbe sembrare un semplice sfogo senza nessuna conseguenza, se fatto di persona con i propri amici, assume tutt’altra importanza se pubblicato su un social media, dove può potenzialmente raggiungere un’ampia platea di persone. 

Infatti nel caso in cui vengano utilizzate espressioni lesive per la reputazione di un altro individuo l’autore può essere chiamato a rispondere di diffamazione aggravata (il reato, di cui all’art. 595 c.p., punito con la reclusione da sei mesi a tre anni o una multa minima di 516 euro).  

A pensarci bene, infatti, l’offesa scritta sui social è più grave, perché raggiunge un numero potenzialmente molto alto di persone e perché è più “persistente” (facile scrivere, molto più difficile cancellare): per questi motivi il reato è aggravato perché avviene attraverso il “mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”: tali sono considerati i social media. 

Individuare il sottile confine fra commenti “semplicemente” inopportuni ed espressioni lesive per la reputazione, quindi perseguibili, è di fatto lasciata all’interpretazione dei giudici, con le sentenze emesse nel corso del tempo. 

 

Quando è diffamazione?

Quando il commento “potenzialmente” offensivo è considerato un vero e proprio reato? Può essere utile richiamare alcune sentenze che hanno delineato i confini della diffamazione “a mezzo social”. 

 

Una donna ha pubblicato sulla propria bacheca Facebook un post di accusa nei confronti dell’ex marito, accusandolo di non contribuire al sostentamento economico del figlio e paragonandolo all’attuale compagno, definito più idoneo a ricoprire il ruolo di padre.
Il tribunale di Campobasso ha ritenuto che quanto affermato, oltre a non corrispondere con la realtà, abbia danneggiato l’uomo offeso, in quanto lo sfogo è “potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone”. (Tribunale di Campobasso, Sentenza n. 574 del 2019) 

 

Sempre tramite la bacheca personale di Facebook, un uomo ha pubblicato una propria intervista nella quale, senza fornire nomi, attacca due persone asserendo che siano giunti a ricoprire le proprie posizioni non grazie a meriti professionali, ma per la loro capacità di fornire “signorine più o meno compiacenti” ai “potenti di turno”.
La Cassazione ha stabilito che, sebbene non vi sia “indicazione nominativa del soggetto la cui reputazione è lesa, se lo stesso sia ugualmente individuabile sia pure da parte di un numero limitato di persone, e che, qualora l’espressione lesiva dell’altrui reputazione sia riferibile, ancorché in assenza di indicazioni nominative, a persone individuabili e individuate per la loro attività, esse possono ragionevolmente sentirsi destinatarie di detta espressione” (Cassazione, sentenza n. 17944 del 2019). 

Situazione simile per un operaio che ha riportato comportamenti autoritari da parte del proprio capo area verso i dipendenti sottoposti.
La Cassazione ha ritenuto che “le frasi, riportate nel testo del provvedimento impugnato, fanno un chiaro riferimento al ruolo del capo area, peraltro citato, sia pure per perifrasi, con un contenuto immediatamente offensivo, in quanto evocativo di una gestione autoritaria, ironicamente portata alle estreme conseguenze, in un apparente gioco delle parti” (Cassazione, sentenza n. 49506 del 2017). 

 

Quando non è diffamazione? 

Su Youtube era stata pubblicata un’intervista rilasciata da un dottore, le cui dichiarazioni sono risultate particolarmente critiche nei confronti dell’omosessualità. Un utente ha quindi commentato con l’augurio che le figlie del medico si scoprissero lesbiche e sposassero dei gay. 

Siccome le espressioni utilizzate devono ledere l’onore della vittima con dichiarazioni tali da gettare una luce negativa su di essa, il giudice ha stabilito che non si configurasse il reato di diffamazione, in quanto l’eventualità sopra descritta non può definirsi negativa o spregevole (Cassazione, sentenza n. 17944 del 2020). 

 

Io ve lo dico da anni che sono due idioti palloni gonfiati irrispettosi della vita delle persone e degli animali. […]”, aveva scritto una donna su Twitter poche ore dopo la festa di compleanno di Fedez del 2018, organizzata da Chiara Ferragni in un supermercato a Milano, durante la quale gli invitati si erano lanciati il cibo riposto sugli scaffali. 
La Procura della Repubblica, in controtendenza rispetto all’orientamento generale, ha chiesto l’archiviazione, in quanto “la generalità degli utenti non dà peso alle notizie che legge” sui social e poiché sui social le “espressioni denigratorie […] godono di scarsa considerazione e credibilità” e risulterebbero quindi “non idonee a ledere la reputazione”. Emerge quindi che un’offesa lanciata sui social non debba automaticamente configurarsi come diffamazione, in considerazione della mancanza di autorevolezza che differenzia un utente di un social dal mezzo stampa tradizionale. 

 

Infine, appare utile considerare un caso concernente gli accesi commenti scagliati in ambito politico, citando un post scritto da Paolo Ferrero, allora segretario di Rifondazione Comunista, in cui definì Matteo Salvini un nazista: “Salvini non è uno sciacallo ma un nazista, come quelli che all’inizio degli anni ’30 gridavano al complotto giudaico massonico“.
Tuttavia, secondo il giudice per le indagini preliminari “Nell’ambito della critica politica la continenza verbale assume una peculiare elasticità, in ragione dei toni abitualmente accesi ed aspri che caratterizzano la lotta politica” (Tribunale di Torino, sentenza 762 del 2016). 

 

 

Ciò che emerge chiaramente dalle pronunce sopra illustrate è che l’oggetto della tutela è l’onorabilità sociale del soggetto, definita secondo il contesto sociale e storico in cui l’offeso e la controparte operano. 
Pertanto un’espressione può risultare lesiva o meno a seconda del contesto in cui viene scritta (o pronunciata), mutando inoltre la propria carica potenzialmente denigratoria con l’evolversi dei costumi della società.