7. L’INNOVAZIONE DIGITALE
Ci siamo lasciati a giugno con un articolo della rubrica speciale dedicata a raccontare il mondo dell’innovazione attraverso gli occhi e le parole della nostra partner Sara Malaguti e del suo progetto Flowerista.
Mentre il precedente appuntamento affrontava il tema sui tipi di innovazione esistenti, questa volta parleremo dell’Innovazione Digitale facendo un piccolo recap storico, per poi esaminare i trend attuali e i nuovi approcci digitali, sempre più orientati a valorizzare le relazioni umane. Scopriremo come queste dinamiche stanno ridefinendo il panorama aziendale e le interazioni con i clienti, ponendo le basi per una trasformazione sempre più necessaria e rilevante.
Prima di iniziare, diamo una definizione all’Innovazione Digitale
Quella che secondo Sara esprime perfettamente il concetto è data dagli Osservatori Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano, ovvero:
“Fare Innovazione Digitale non vuol dire semplicemente utilizzare le nuove tecnologie in quanto tali, ma partire da queste per ripensare e semplificare un processo produttivo e creativo, erogare nuovi beni e servizi volti al miglioramento della vita degli utenti, ridisegnare, in una logica di apertura al cambiamento, i modelli che governano il business”.
Insomma, Innovazione Digitale è un concetto molto ampio e trasversale. Si riflette in tutti i cambiamenti non solo tecnologici, ma anche sociali, organizzativi, culturali, creativi che migliorano la nostra vita di tutti i giorni. Mentre evolve la tecnologia, di pari passo evolvono in digitale anche i modelli di business e di organizzazione delle aziende. Ecco perché l’Innovazione Digitale può essere letta anche come Trasformazione Digitale.
Per stare al passo con questa grande trasformazione, è necessario imparare a adottare un approccio nuovo, un approccio digitale.
Parliamo delle basi storiche che hanno permesso di arrivare all’innovazione digitale parlando di due svolte significative: la nascita del PC e quella del WEB.
La storia del Personal Computer
Forse non tutti lo sanno, ma la cosiddetta “società digitale” di oggi ha le sue radici già negli anni 50 del 900. È in quel periodo, infatti, che nei paesi industrializzati ci fu il passaggio dalla tecnologia meccanica ed elettronica analogica a quella elettronica digitale. Si parla anche di “rivoluzione informatica”, proprio per indicare i cambiamenti socioeconomici apportati dalle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (l’ICT). Cambiò radicalmente l’accesso all’informazione, che diventò alla portata di tutti, proprio grazie alla moltiplicazione dei canali che lo permettevano.
Ma il vero punto di svolta fu l’invenzione di quello che viene considerato il padre di tutti i dispositivi del mondo della comunicazione digitale: il personal computer.
Venne inventato negli anni 70 come strumento per elaborare elettronicamente i dati a uso personale (da qui Personal), per l’ambito domestico o per attività commerciali di piccole dimensioni.
L’aspetto più rivoluzionario di questa macchina è proprio la parola Personal. Infatti, i primi dispositivi elettronici per l’elaborazione automatica di grandi quantità di dati esistevano già anche prima, negli anni 50, e si erano diffusi nelle grandi industrie, università e amministrazioni pubbliche. Però queste macchine avevano dimensioni enormi e occupavano intere stanze, inoltre erano complicate da usare (infatti erano accessibili solo a pochi tecnici iperspecializzati) e costavano cifre spropositate.
Il primo computer della storia che possiamo definire “commerciale” pesava ben 13 tonnellate e il prezzo si aggirava tra i 1,25 e 1,5 milioni di dollari. Venne creato nei primi anni 50 dagli ingegneri J. Presper Eckert e John Mauchly e prendeva il nome di UNIVAC I (Universal Automatic Computer I). Aveva l’obiettivo di monitorare il cosiddetto baby boom, ovvero il forte aumento demografico che si verificò in America in quegli anni.
Nel gennaio del 1975 nacque ufficialmente il personal computer, o almeno questa è considerata la data simbolica poiché venne messo sul mercato il primo “mini” computer commerciale: si trattava dell’Altair 8800 proposto da Ed Roberts, proprietario dell’azienda statunitense MITS, e costava all’incirca 500 dollari. Questo computer era lento, complesso e soggetto ad errori ma, nonostante ciò, il suo inaspettato successo dimostrò che il mercato dell’informatica di “piccola taglia” era pronto a decollare.
Tra i tanti appassionati di informatica che si interessarono alla notizia ci furono anche 2 studenti di Harvard: Bill Gates e l’amico Paul Allen, che riuscirono a scrivere un linguaggio di programmazione ad alto livello per l’Altair 8800, conosciuto come BASIC. A metà del 1975 i due giovani fondarono la Microsoft, dando vita all’industria del software per macchine compatte.
Il 1975 può essere considerato l’anno della nascita dell’informatica moderna. Da quel momento iniziarono a comparire sul mercato aziende di hardware e software e l’epicentro dell’innovazione informatica fu la Silicon Valley, in California.
Proprio qui tra la fine del 1975 e l’inizio del 1976 nacque la Apple.
Steve Jobs e Steve Wozniak contribuirono alla rivoluzione informatica creando un computer particolarmente compatto,l’Apple-1, il cui aspetto più innovativo era la possibilità di collegare una tastiera e un monitor. Ma rendendosi conto che quel prodotto sarebbe stato apprezzato solo da una nicchia di appassionati, Steve Jobs gli cambiò veste, facendogli assumere un aspetto più curato e raffinato. Così nel 1977 venne presentato Apple II, un computer compatto racchiuso in un accattivante contenitore in plastica, già provvisto di tastiera integrata e collegabile alla tv o apposito monitor. Non più una macchina per pochi, ma un prodotto finito per tutti. Poi per promuoverlo Apple lanciò una campagna pubblicitaria sulle riviste e sui quotidiani a grande tiratura di tutto il paese con lo slogan: “Apple II è pronto per lavorare, giocare, crescere con te”.
Il successo fu enorme e da quel momento tante altre aziende presentarono modelli simili. Dopo la prima fase della microinformatica adatta a specialisti e hobbisti, venne inaugurata la seconda generazione dell’informatica personale, quella caratterizzata da macchine già assemblate, vendute in contenitori dal design seducente e con software facili da usare e pensate per il lavoro, il gioco e lo svago.
IBM non fu da meno e nell’agosto del 1981 presentò la sua prima macchina compatta, il PC IBM (dove PC sta per personal computer). E infatti il termine “personal computer” è entrato nel gergo comune proprio da questa data.
In concomitanza con lo sviluppo del computer iniziò anche la storia di Internet. Negli anni 50 del 900, negli Stati Uniti si stava già cominciando a teorizzare la nascita di una rete di computer mondiale che permettesse di trasmettere segnali, parole, immagini a lunga distanza. Ma Internet moderno è il frutto di diverse fasi di progresso tecnologico. Bisogna attendere gli anni ’80 perché le tecnologie informatiche comincino a diffondersi in tutto il mondo e gli anni ’90 per assistere alla nascita del world wide web e alla diffusione massiva della rete.
La storia di come è stato inventato il WEB
Nel 1865 viene pubblicato un manuale che fece grande successo all’epoca, si intitolava Enquire Within Upon Everything. Voleva essere una sorta di enciclopedia per l’ambito casalingo.
Negli anni 60 del 900 ne era rimasta una copia polverosa nella casa di una coppia di matematici, alla periferia di Londra. Il figlio, Tim Berners-Lee, rimase affascinato dal titolo che gli restò in un angolo della mente, associato all’emozione di avere a portata di mano un’immensa miniera di dati da cui attingere.
Dieci anni dopo, Tim venne assunto come programmatore informatico nel laboratorio di ricerca svizzero CERN, e qui, sopraffatto dall’enorme flusso di informazioni e di addetti all’interno dell’organizzazione, come progetto personale cominciò ad elaborare un’applicazione che gli permettesse di tenere un registro aggiornato di tutti quei dati. Gli tornò alla memoria il titolo del libro e chiamò la sua applicazione Enquire.
Quasi dieci anni dopo, cominciò ad abbozzare un’altra applicazione capace di creare collegamenti tra documenti immagazzinati in computer diversi, attraverso connessioni di ipertesto. Per un po’ non riuscì a darvi un nome, infine individuò una metafora per la fitta rete della piattaforma e la chiamò World Wide Web. Il WWW venne messo a disposizione di tutti nel 1993.
Negli anni 90 però c’era un web ancora lontano da quello che conosciamo oggi.
Google era poco più di un’idea imprenditoriale, Facebook non esisteva, non c’era lo smartphone, e non c’erano quindi i business model basati su questo dispositivo (pensiamo al Mobile Payment e Sharing Economy). Non esistevano il Digital Advertising e le diverse forme di comunicazione e marketing proprie dell’online.
Non si parlava di Big Data, Data Science, Artificial Intelligence, Blockchain.
Tornando a oggi
Tutti questi trend della Digital Innovation si sono affermati e consolidati, rivoluzionando il business e le società e penetrando in tutti i settori dell’economia.
I Brand, per rimanere competitivi e cogliere le opportunità del digitale, non devono solo apprendere costantemente nuove competenze tecnologiche, ma devono adottare un vero e proprio approccio digitale e customer-based.
Da quello che sta emergendo in questi anni, ma non solo, anche dalle riflessioni di molti studiosi e teorici del marketing, appare sempre più chiaro che il vero capitale aziendale non consiste soltanto nel prodotto/servizio offerto, o nel padroneggiare i canali di vendita, ma piuttosto nelle risorse definite “intangibili”. In particolare, il valore risiede nelle relazioni umane che l’impresa ha con i propri clienti, fornitori, partner, dipendenti.
Diventa fondamentare capire come possiamo sfruttare il digitale per conoscere realmente i bisogni dei nostri clienti e i loro comportamenti. E poi fare un passo in più, ovvero capire come possiamo trasformare i nostri dipendenti in veri e propri Brand ambassador della marca, in modo che ne parlino positivamente sui loro canali digitali. Infine, come scegliere i partner di cui fidarci e dare il via, ad esempio, a un processo di Open Innovation.
Per riuscirci, teniamo presente che deve per forza entrare in gioco una nuova disciplina a fare compagnia al marketing, ovvero la psicologia.
Fino agli anni ’70 del ‘900, la teoria economica tradizionale ha completamente escluso la sfera emozionale dal processo di acquisto: secondo quel modello, l’essere umano (homo economicus) prende decisioni in modo del tutto razionale, valutando ogni alternativa in base a criteri oggettivi e selezionando l’opzione che permette di ottenere più valore. In questo scenario, il prodotto che promette più benefici al minor prezzo, è la scelta ottimale.
Nel 1978 Herbert A. Simon vinse il premio Nobel per l’economia per le sue ricerche sul processo decisionale nelle organizzazioni economiche. Simon affermò che il consumatore non segue percorsi logici né tantomeno completamente razionali nelle sue scelte; è la combinazione integrata tra emozione e ragione a determinare il comportamento degli uomini, compreso l’acquisto.
Per riassumere il concetto con le parole del grande pubblicitario inglese David Ogilvy: “Le persone non pensano quello che sentono, non dicono quello che pensano, non fanno quello che dicono”.
Oggi appare chiaro che la battaglia tra le aziende non si gioca solo sui prodotti, ma sulle percezioni che riescono a trasmettere relativamente a quei prodotti. Questa affermazione, apparentemente provocatoria, è in realtà il banco di prova di molte imprese. Non sono le caratteristiche tecniche di un prodotto a fare la differenza, che devono certo essere di qualità, ma piuttosto la percezione e il valore che i clienti riescono ad attribuirvi. Altrimenti, il prodotto può essere il migliore del mondo, ma nessuno lo sa.
Il marketing degli anni 20 del nuovo millennio deve fare leva sulla capacità tutta umana di ispirare e comunicare percezioni, per far capire al cliente il valore finale di un prodotto o di un servizio. La percezione è la realtà, fino a prova contraria.
E siccome le percezioni hanno molto più a che fare con la sfera intima e psicologica del cliente che con le qualità intrinseche del prodotto, ecco allora che ci conviene spostare il focus dal prodotto al cliente.
Sono le persone che devono trovarsi al centro delle strategie delle aziende, non più i prodotti, ora che è intervenuta la trasformazione digitale. Di conseguenza, questa trasformazione deve corrispondere a un cambiamento nella cultura imprenditoriale, che deve essere consapevole del ruolo strategico del customer care, oltre ad essere aperta alla piena integrazione degli strumenti digitali nel proprio modello produttivo.
In più diventano fondamentali i micro-dati, che sono informazioni preziosissime e si annidano ovunque, basta sapere dove cercare. Possiamo andare a caccia di indizi sui profili social dei clienti, nei gruppi FB, su Google Trends, nei blog di settore, oppure spronare i nostri clienti a lasciarci feedback, reazioni e recensioni. Cerchiamo di prestare attenzione ai segnali che si ripetono. Quali sono i problemi che vengono ripetutamente espressi? Le emozioni che provocano nelle persone? Come risolvono gli altri lo stesso problema? Con la nostra stessa soluzione o una diversa?
In conclusione, l’Innovazione Digitale rappresenta una vera e propria svolta nel modo in cui le aziende interagiscono con il mondo e con i propri clienti. La tecnologia ha aperto nuove frontiere, non solo migliorando l’efficienza dei processi produttivi, ma anche ridefinendo le relazioni umane che sono alla base di ogni attività commerciale. In un contesto in continua evoluzione, le aziende devono abbracciare questa trasformazione, adottando approcci che valorizzino la comunicazione, l’empatia e la comprensione dei bisogni dei consumatori. Solo così sarà possibile non solo rimanere competitivi, ma anche costruire legami autentici e duraturi con i clienti. L’innovazione digitale, quindi, non è solo una questione di tecnologia, ma un’opportunità per creare valore reale e significativo nel mondo moderno.
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